MARIO  GROPPO

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HANDICAP: LA CONOSCENZA DEL LIMITE

COME FONDAMENTO DELLO SVILUPPO DELLA PERSONA

 

Considerare ogni uomo che vive sulla terra come una persona che ha valore per se stessa, degna di essere considerata e amata qualunque siano le sue condizioni fisiche, psichiche, economiche o sociali, si può indicare come un ideale punto di arrivo del cammino della storia umana. Questo principio di umanità e di civiltà è parte integrante della religione e della cultura cristiana ed è stato praticato nelle diverse condizioni storiche dalla Chiesa fin dai tempi evangelici. Tuttavia la consapevolezza di tale principio ha faticato non poco ad emergere e ad affermarsi nella coscienza umana, rimanendo continuamente bloccato dal prevalere dei condizionamenti culturali, economici e sociali, che hanno impedito all’uomo di godere di tutti i suoi diritti. Così è stato anche per tutti i soggetti portatori di handicap. Il termine “handicap” di origine inglese, si è affermato negli ultimi venti anni, ma è stato usato con un significato non sempre chiaro e univoco. Seguendo le indicazione date dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nell’anno internazionale dedicato all’handicappato, celebrato nel 1981, possiamo ritenere che con il termine di soggetti portatori di handicap si intendono i soggetti disabili, che a causa di una qualche menomazione sia fisica, sia sensoriale, sia psichica, di origine neonatale o acquisita, possono correre il rischio di essere emarginati socialmente, o comunque che tale disabilità impedisca loro di godere delle stesse qualità di vita e delle stesse dignità di ogni essere umano.

 

CENNI STORICI

 

Effettivamente l’attenzione verso i soggetti portatori di handicap fisici, cioè con difficoltà di deambulazione e di manipolazione, e/o psichici, cioè con difficoltà cognitive e relazionali, si è venuta lentamente ad affermare solo negli ultimi cento anni, insieme con il riconoscimento che è possibile intervenire in loro favore sia per curarli sia per educarli, ottenendo un progressivo miglioramento delle loro condizioni, fisiche, cognitive e relazionali. Nel 1800 e agli inizi del 1900 assistiamo al sorgere in Europa, e soprattutto in Italia, ad iniziative non solo di assistenza caritativa, come la grandiosa opera della Divina Provvidenza del beato Cottolengo a Torino, dove religiosi e religiose si dedicano amorevolmente all’assistenza di soggetti con gravissimi deficit fisici e psichici, ma anche ad iniziative di assistenza che davano notevole importanza anche all’aspetto educativo. Possiamo citare il caso dell’opera don Guanella, a Como e in Lombardia, alla fine dell’800 e l’inizio del ‘900; questo sacerdote applicava i principi della pedagogia di don Bosco anche a soggetti, che allora venivano definiti come “deficienti mentali”, ma che don Guanella chiamava “i buoni figli”. È significativo che nel 1915, alla morte di don Guanella, proprio padre Agostino Gemelli abbia commentato la figura di questo sacerdote per sottolineare la sua iniziativa di assistenza educativa.

All’inizio del secolo l’attenzione di medici, di psicologi, di pedagogisti verso i soggetti con deficit sensoriali e psichici porta a sperimentare le prime forme di educazione, di rieducazione e terapia attraverso la creazione di istituzioni specializzate: le scuole speciali per l’educazione dei soggetti deficienti mentali, e successivamente gli istituti medico-psico-pedagogici, che raccolgono tutti gli handicappati psichici adolescenti e adulti. Anche in Italia agli inizi del ‘900 sorgono le prime scuole speciali, soprattutto a Milano e a Roma. Tali iniziative si fondano sulla nascente psicologia scientifica, che ritiene che sia possibile discriminare la diversa dotazione intellettiva di ciascun soggetto, utilizzando strumenti diagnostici, quali erano allora i primi test mentali, sorti con le teorie differenziali o psicometriche, come ad esempio, la famosa Scala metrica di intelligenza di Binet del 1905. Con tali test di riteneva che fosse possibile misurare il livello intellettivo, individuando un quoziente intellettivo (Q.I.) personale che avrebbe permesso la classificazione di ogni individuo in riferimento di una norma statistica, ricavata da un campione significativo di soggetti di una data età. In tal modo i soggetti che attraverso tali test venivano classificati con intelligenza inferiore al livello normale, che convenzionalmente era stabilito dal Q.I. intorno ai cento punti, venivano considerati ritardati, mentre al di sotto di settanta punti insufficienti mentali.

I soggetti ritardati venivano indirizzati verso le classi differenziali, mentre gli insufficienti mentali verso le scuole speciali, che provvedevano alla loro educazione scolastica attraverso metodi e contenuti didattici adeguati al loro livello mentale.

Sorgeva così la psicologia differenziale, la pedagogia speciale, e anche la didattica differenziale, che fornivano metodi e tecniche di educazione compensativa o di rieducazione in funzione degli specifici handicap fisici, sensoriali o psichici. Accanto alle scuole speciali sorgevano anche le scuole di formazione per gli insegnanti specializzati per l’intervento rieducativo con i soggetti portatori di handicap. Merita ricordare fra queste prime scuole la scuola magistrale ortofrenica, fondata presso l’Università cattolica da padre Gemelli nel 1926. La pedagogia speciale e la didattica differenziale si fondavano sul principio che per ogni forma di deficit fisico, sensoriale o psichico si potessero individuare metodi, tecniche e strumenti di educazione compensativa in modo da fornire possibilità di sviluppo cognitivo e operativo a tutti i soggetti portatori di handicap.

Esempi notevolmente validi di intervento in tale direzione erano dati proprio per quanto riguardava le forme di educazione speciale per i soggetti con deficit sensoriale, visivi e uditivi, in particolare con i ciechi e con i sordomuti. I sordomuti, essendo sordi profondi sin dalla nascita, potevano riacquistare la parola, quindi la capacità di parlare ed esprimere il loro pensiero, attraverso tecniche di recupero che proprio in quei tempi venivano affinandosi. Oggi possiamo dire che i sordomuti non esistono più, almeno nei paesi occidentali, ma vi sono soggetti con sordità profonda, i quali con protesi sofisticate e con forme di rieducazione specializzate hanno notevoli possibilità di comunicazione verbale e di inserimento sociale. Altrettanto si era riusciti a fare con i soggetti ciechi; ad esempio, vi è la possibilità di apprendimento attraverso la lettura digitale con l’alfabeto Braille, e più recentemente con apparecchiature più sofisticate come l’opticon, che permettono addirittura la lettura digitale dello stampato. Purtroppo per la maggior parte degli handicap, soprattutto per quelli psichici, cognitivi e relazionali, l’intervento pedagogico e le tecniche di ricupero non avevano dato risultati altrettanto soddisfacenti. L’educazione speciale pertanto che si è venuta realizzando in tutti i paesi occidentali, in Europa come in America, si è centrata quindi nel potenziamento delle scuole speciali e delle istituzioni psico-pedagogiche e nei laboratori protetti, che venivano istituiti per i soggetti con handicap che avessero acquisito sufficienti capacità per una produttività economica, anche limitata. Tali istituzioni tuttavia comportavano l’isolamento del soggetto portatore di handicap, indirizzandolo verso istituzioni che avevano la caratteristica di differenziarlo ulteriormente nel suo handicap, di segregarlo, di allontanarlo dagli altri soggetti normali. Il soggetto portatore di handicap fisico o psichico grave non frequenta l’ambiente sociale, quindi non era conosciuto dagli altri, anzi spesso la sua vista creava disagi e fastidio o impauriva, proprio per la mancanza di esperienza. La famiglia spesso si vergognava di avere un figlio in tali condizioni e tendeva a nasconderlo o a segregarlo. La società lo chiudeva in scuole speciali o in istituzioni totali, quando diventava adulto.

La ricerca scientifica nel campo medico e nel campo psicologico, in particolare nel campo di quelle che saranno indicate come le neuroscienze, dimostrava proprio negli anni ‘60-’70 non solo che vi erano notevoli possibilità di sviluppo cognitivo ed emotivo-affettivo per i soggetti portatori di handicap psichici, ma anche che vi era la possibilità di acquisizioni di conoscenze e di abilità funzionali, fondate proprio sull’utilizzazione delle capacità residue del soggetto, purché questo fosse posto in un ambiente sociale assai stimolante, ricco si iniziative e di esperienze e soprattutto comune agli altri soggetti normali.

I soggetti portatori di handicap raggiungevano livelli maggiori di autonomia e capacità di funzionamento operativo più elevate e più adeguate alle esigenze reali, purché appunto vi fosse un ambiente stimolante, dove altri soggetti con intelligenza normale operavano, agivano e rappresentavano un punto di riferimento per i soggetti portatori di handicap.

La ricerca scientifica recente negli ultimi anni si è orientata verso l’elaborazione di nuove concezioni dell’intelligenza, di nuovi modelli per il funzionamento della mente e del pensiero.

Gli studi in particolare sull’intelligenza artificiale con il contributo della cibernetica e dell’informatica da una parte, delle neuroscienze dall’altra, hanno dimostrato che l’essere umano è in continua evoluzione e che possiede enormi possibilità di adattamento alle condizioni ambientali, connesse con la notevole plasticità del sistema nervoso. Psicologi e neuorologi sono concordi nel sottolineare la grande rivoluzione che nel prossimo futuro apporteranno le scoperte sul funzionamento non solo del sistema nervoso e del cervello, ma dei diversi sistemi biologici propri del corpo umano, come ad esempio lo studio dell’immunologia, che oggi viene affrontato soprattutto sotto la spinta di problematiche nuove, come quelle imposte dalla comparsa dell’Aids. La plasticità del sistema nervoso, e non solo di esso, ma di tutto il corpo umano, nella sua maturazione e nel suo sviluppo, è espressa nel suo lento adattarsi nei millenni all’evoluzione delle condizioni ambientali e culturali, che hanno modellato il corpo e la mente umana in modo da rispondere alle pressioni della realtà fisica da una parte e alle esigenze delle richieste sociali dall’altra. Tale modellamento si ripete in forme rapide e sintetiche nel corso dello sviluppo infantile e adolescenziale di ogni essere umano, che acquisisce comportamenti e linguaggio propri della cultura in cui è immerso, sviluppando però risposte personali e originali alle situazioni esperienziali in cui si trova ad interagire. Possiamo citare tra gli studi recenti sullo sviluppo infantile, quelli in particolare sull’acquisizione della competenza comunicativa non-verbale come fondamento della acquisizione della competenza linguistica, fin dal primo anno di vita (Bruner, 1981, 1983); ancora la ricerca sulla formazione degli script, ossia di sequenze di eventi, che dimostrano la capacità di memorizzazione di comportamenti abituali, che il bambino viene ad acquisire e ad immagazzinare nella sua mente per costituire la sua enciclopedia delle conoscenze fino nei primissimi anni di vita (Shanck e Abelson, 1977). Tali ricerche hanno evidenziato come le conoscenze e le abilità pratiche che il bambino acquisisce sono strettamente connesse alle diverse modalità di esperienza e alla dominanza dei canali percettivo-cognitivi (visivi o uditivi o propriocettivi ecc.) che vengono ad essere prevalenti nell’utilizzazione e che portano a definire diversi stili cognitivi e relazionali nella costruzione della personalità adulta.

Le recenti nuove teorie sull’intelligenza, che divergono profondamente dalle teorie psicometriche, su cui si fondavano i test mentali, e dalle teorie comportamentiste, che hanno dominato la cultura psicologica nella prima metà del nostro secolo, affermano che esistono diverse forme di intelligenza appunto legate alle diverse modalità di esperienza e alle diverse organizzazioni della conoscenza (Garndner, 1985; Fodor, 1983; Minsky, 1983).

Tali nuove teorie ci permettono anche di comprendere meglio l’influenza profonda che l’impatto della moderna tecnologia microelettronica, cioè della televisione e dei processi informatici, ha prodotto sui processi cognitivi e sui processi di apprendimento, soprattutto delle giovani generazioni, contribuendo proprio a favorire nuove modalità di organizzazione delle conoscenze, che si sono tradotte in grosse difficoltà da parte dei giovani all’interno della scuola. Infatti le nuove generazioni che fin dall’infanzia sono a contatto quotidiano, in casa e nell’ambiente sociale con le nuove tecnologie telematiche e informatiche, hanno risentito fortemente di tali influenze proprio per quanto riguardava le nuove modalità di organizzazione dei processi cognitivi, perciò si trovano oggi in parte sprovvedute ad inserirsi in modo adeguato nel contesto tradizionale della nostra scuola, che utilizza ancora metodologie didattiche e forme organizzative praticamente immutate e abituali, soprattutto quelle legate alla tecnologia della lezione orale e del libro di testo. Ciò spiegherebbe l’attuale situazione di disagio della scuola, dovuta appunto all’emergere del fenomeno della dispersione scolastica, cioè il fenomeno dei drop-outs, di coloro che abbandonano senza aver raggiunto la licenza di scuola media. Colpisce anche il fenomeno delle bocciature nel biennio della scuola media superiore, che raggiunge livelli superiori al 50% dei soggetti frequentanti. Tale fenomeno preoccupante è chiaro sintomo di una crisi di trasformazione sociale molto complessa, che ha una ricaduta sulla scuola, che non si può spiegare in maniera semplice, perché non è possibile che più della metà dei ragazzi italiani oggi non siano in grado di acquisire le conoscenze curricolari e gli standard di apprendimento raggiunti dalle precedenti generazioni. Chiaramente ci troviamo di fronte a problemi nuovi e assai complessi dovuti alla rivoluzione tecnologica e alla conseguente trasformazione sociale che ha portato una scuola aperta a tutti senza più selezioni di tipo sociale e culturale, di fronte all’impatto delle nuove modalità di apprendimento e di organizzazione della conoscenza che le nuove generazioni presentano.

 

L’INSERIMENTO SOCIALE DEGLI HANDICAPPATI

 

In queste nuove prospettive si pone anche un diverso approccio al problema dell’handicap, in quanto si può affermare che la possibilità di sviluppo cognitivo e relazionale è strettamente legata alla ricchezza dell’esperienza che l’ambiente quotidiano di vita può offrire. Ne deriva di conseguenza la possibilità di inserire il soggetto portatore di handicap in un ambiente normale, dove possa trovarsi insieme con tutti gli altri ragazzi; ciò può offrirgli possibilità di sviluppo cognitivo e nuove capacità di comunicazione e di interazione sociale, tali da migliorare notevolmente il successivo inserimento sociale.

Su tali principi e su tali risultati della ricerca scientifica si è fondata la politica scolastica italiana degli ultimi 15 anni, che ha solennemente affermato il principio dell’inserimento e dell’integrazione degli alunni portatori di handicap nella scuola dell’obbligo comune, abolendo le classi differenziali e praticamente rinunciando a continuare l’esperienza delle scuole speciali e degli istituti medico-psicopedagogici, dove venivano precedentemente isolati i soggetti handicappati con una educazione e una metodologia didattica speciale e differenziata. L’inserimento nella scuola dell’obbligo degli alunni portatori di handicap ha posto l’Italia negli anni ’80 all’avanguardia nelle politiche scolastiche dei paesi occidentali, in particolare europei, proprio perché il principio dell’integrazione non è a tutt’oggi accettato e realizzato da tutti i paesi, soprattutto occidentali, che si pongono ancora nell’ottica tradizionale dell’educazione speciale e differenziale. Inserire gli alunni handicappati fin dall’asilo nido e dalla scuola materna insieme con tutti gli altri bambini, giova loro enormemente, poiché offre loro ricchezza di stimoli e di situazioni cognitive e interpersonali proprie della vita quotidiana, facilitando notevolmente il loro adattamento alla realtà e il loro inserimento sociale, oltre che le loro capacità cognitive e la loro personalità.

Tale esperienza si è dimostrata non solo utile e notevolmente positiva per gli alunni portatori di handicap, ma è servita anche agli stessi bambini cosiddetti normali, e anche alla stragrande maggioranza delle famiglie italiane, che hanno potuto vivere direttamente o indirettamente l’esperienza concreta di tale integrazione, prendendo coscienza della “diversità” del bambino portatore di handicap e accettandolo pienamente, superando le paure, le ansie o i pregiudizi che tale esperienza comporta; certo ciò non è avvenuto senza difficoltà, incomprensione, conflitti e sofferenze, inevitabili in un cambiamento sociale di tale portata, poiché spesso la scuola e gli insegnanti si sono trovati soli di fronte a nuovi problemi assai complessi e difficili, senza il supporto di servizi sanitari adeguati, dovuto alla latitanza e alla situazione fallimentare del funzionamento delle Unità sanitarie locali; ma soprattutto ciò che è mancato alla scuola sono stati i servizi psico-pedagogici, proprio perché questi o non sono stati mai presenti o sono stati aboliti con l’avvento delle regioni negli anni ’70, e tale carenza si è fortemente ripercossa nella scuola non solo per l’inserimento degli handicappati, ma come abbiamo visto di fronte all’attuale impatto della rivoluzione tecnologica ha portato all’attuale situazione di disagio nella scuola, con il fenomeno della dispersione scolastica, dell’abbandono e della ripetenza.

Purtroppo tali carenze sono da imputare al ritardo e spesso all’ignoranza e alla scarsa sensibilità, che i nostri politici hanno avuto verso le strutture di supporto per la scuola.

Recentemente la sentenza della Corte Costituzionale del 1987 e la conseguente circolare ministeriale n. 262 del 22/9/1988 hanno aperto le porte della scuola secondaria superiore all’inserimento degli handicappati, per tutti nel biennio, e in parte, pur con limitazioni legate al parere negativo espresso dalle Usl, anche nel triennio. In tal modo la scuola si sobbarca un nuovo onere assai gravoso, ma assolutamente necessario per realizzare la politica di integrazione scolastica, come base e fondamento dell’integrazione sociale degli handicappati del nostro paese. Ne deriva anche una maggiore chiarezza nel perseguire l’obiettivo dell’integrazione sociale degli handicappati, inoltre una maggiore omogeneità, in quanto la scuola, dalla materna alla secondaria superiore, viene ad essere individuata come l’ambiente privilegiato in cui potranno essere inseriti i soggetti handicappati, almeno fino ai 16-18 anni. Ciò non significa che gli enti locali e territoriali (regioni, Comuni, Usl) non siano tenuti a dare il loro contributo e venga giustificata la loro latitanza attuale, fatte naturalmente salve le lodevoli eccezioni, soprattutto di comuni dell’Italia settentrionale. Infatti le soluzioni proposte e attualmente realizzate dagli Enti locali attraverso le diverse leggi regionali hanno portato alla creazione di centri per handicappati, variamente denominati (centri socio-educativi, centri di formazione professionale per handicappati, centri territoriali di riabilitazione, ecc.). Tali soluzioni riproducono il modello della scuola speciale in quanto raccolgono insieme tutti i ragazzi handicappati, vanificando così lo sforzo e l’impegno della scuola dell’obbligo per la loro integrazione sociale.

In realtà per i ragazzi handicappati finora dopo la terza media vi era il vuoto; la famiglia era costretta a tenere il figlio handicappato in casa, oppure ad inserirlo appunto in un centro comunale o regionale per handicappati, là dove esisteva. Gli Enti locali non hanno finora saputo trovare alcuna soluzione innovativa per il problema degli handicappati, malgrado gli innumerevoli convegni, i fiumi di parole e di miliardi spesi per affrontare e risolvere il problema dell’integrazione socio-lavorativa dei soggetti portatori di handicap dopo la scuola dell’obbligo, salvo le fortunate e rare eccezioni di cooperative miste e di altre strutture simili, che normalmente però sono dovute ad iniziative di privati e al volontariato. La presenza del soggetto portatore di handicap nella vita di tutti i giorni ha portato ad un profondo cambiamento sociale e ha costituito un importante momento di riflessione, non solo come valore morale, poiché l’esperienza di “diversità” del soggetto portatore di handicap suscita sentimenti di solidarietà, che spingono ciascuno ad atteggiamenti di ascolto e di relazione di aiuto, ma anche soprattutto perché ha permesso a ciascuno di prendere coscienza del limite come condizione normale di vita e come realtà della persona umana.

 

LA COSTRUZIONE DEL SÉ

 

Per affrontare meglio tali problematiche è utile analizzare i contributi che la ricerca scientifica ci ha offerto recentemente, soprattutto gli studi della psicologia genetica della Scuola di Ginevra, della psicologia cognitivista, e anche della psicoanalisi. Tali contributi si sono concentrati sulle problematiche dello sviluppo cognitivo ed emotivo-affettivo, sulla costruzione dell’intelligenza e sul funzionamento del pensiero, soprattutto sulla costruzione del Sé, cioè della persona. Nei primi anni di vita vengono poste le basi della costruzione del Sé, legato alla costruzione simbolica del corpo, che attraverso l’organizzazione degli schemi senso-motori viene orientato nello spazio e nel tempo. L’organizzazione spazio-temporale permette di cogliere i fondamentali rapporti interno-esterno, cioè in riferimento al proprio corpo e in riferimento all’ambiente circostante, permettendo così l’esercizio delle funzioni dell’Io, che stanno alla base appunto della costruzione del Sé. Affinché vi sia la possibilità che l’Io possa organizzarsi e svilupparsi attraverso la conoscenza dell’ambiente che lo circonda, acquisendo la consapevolezza della realtà, è necessario che l’ambiente circostante fin dalla nascita si costituisca come ambiente favorevole “sufficientemente buono” (Winnicott, 1965).

Tale ambiente è rappresentato inizialmente dalla madre e dall’ambiente familiare che offrono una situazione di protezione, di contenimento, che è alla base della socializzazione, cioè dell’apprendimento delle regole della vita. Il concetto di contenimento (Holding) (Winnicott) rappresenta un contributo molto importante della psicoanalisi per comprendere il passaggio dal corpo alla mente, per comprendere il funzionamento simbolico e quindi la costruzione del Sé. Il concetto di contenimento indica la capacità di contenere il bambino, cioè la possibilità per il bambino di costruire una consapevolezza del proprio corpo, di sentire i confini del proprio corpo, che permettono di orientarsi nell’ambiente che lo circonda. Inizialmente ciò avviene sul piano strettamente fisiologico: nel periodo fetale il bambino galleggia nel liquido amniotico e saranno proprio le pareti uterali che faranno da punto di riferimento, dandogli le prime sensazioni di contenimento, che sono alla base della costruzione dello schema corporeo infantile. Alla nascita poi saranno le braccia della madre, il corpo della madre che contiene il bambino, permettendogli di avere quell’esperienza del proprio corpo, quella consapevolezza del proprio schema corporeo, che è la condizione fondamentale per poter realizzare le prime esperienze senso-motorie verso l’ambiente stesso, verso la realtà.

Tale esperienza è profondamente emotivo-affettiva, prima ancora che cognitiva. Attraverso l’ambiente di contenimento (Setting) il bambino raggiunge quella sicurezza emotivo-affettiva che gli è assolutamente necessaria per essere in grado di sperimentare e accettare la mancanza, anche solo momentanea, della madre. Il ricordo di lei, della sua presenza, è la condizione per la nascita della funzione simbolica, cioè della mente. La capacità di sopportare la sensazione di mancanza, di vivere tale frustrazione porterà il bambino ad accettare la realtà, che è fatta di presenze e di assenze, di bello e di brutto, di buono e di cattivo; quindi proprio attraverso questa esperienza iniziale profondamente emotiva avviene la costruzione della conoscenza, ma che costituisce anche la condizione della reazione dei valori culturali. Possiamo quindi affermare che attraverso la capacità di contenimento della madre sorge la capacità del bambino d sopportare ed accettare la frustrazione della mancanza, cioè la capacità di accettare il limite che la realtà pone alla condizione umana, che si pone come la capacità iniziale di costruire dei valori. Perché il bambino possa crescere e diventare un adulto, costruire una personalità matura e inserirsi nella società è necessario che egli incontri delle figure significative (la madre in famiglia, gli educatori e gli insegnanti nella scuola) che siano in grado di svolgere tale funzione di contenimento, cioè di sperimentare della regole chiare e precise per il comportamento del bambino. Se l’adulto ha chiara la coscienza dei propri limiti ed è il primo ad essere chiaro nella assunzione dei propri ruoli, rispettando le regole sociali, vi sono le condizioni per la creazione di un ambiente “sufficientemente buono”, necessario per la costruzione del Sé.

 

LA COSCIENZA DEL LIMITE

 

Per ogni adulto vivere il proprio limite, averne coscienza ed accettarlo, significa costruire realisticamente la propria identità e porre le condizioni per una crescita personale, capace di realizzare una relazione educativa adeguata. La relazione educativa con il soggetto portatore di handicap pone problemi ulteriori, proprio perché non è soltanto sufficiente una capacità di controllo delle norme stabilite, che porti il soggetto a sperimentare la propria autonomia, ma è necessario anche che la figura significativa dell’educazione sia in grado di contenere le spinte aggressive e i bisogni emotivi incontrollati, che possono emergere in ogni momento. Veramente la funzione “del genitore che nutre e che controlla”, come dice Berne, risulta difficile da svolgere con i soggetti handicappati, sia perché il loro sviluppo è assai rallentato (malgrado l’handicappato invecchi, resta sempre un “ragazzo”), sia perché i loro bisogni e le loro manifestazioni aggressive o appaiono del tutto non pericolose e facilmente contenibili, oppure viceversa risultano eccessivamente pericolose e incontrollabili, facendo sì che l’educatore si senta incapace e inadeguato. Il rapporto con il soggetto portatore di handicap pone l’adulto, genitore o educatore, in una crisi relazionale e professionale che può essere superata solo se egli possiede una personalità sufficientemente matura, capace di stabilire una relazione educativa, accettandone tutte le implicazioni emotive, ma anche essendo cosciente di esse e sapendo prendere decisioni adeguate alla situazione. Quando una persona è in grado di prendere coscienza dei propri limiti e di accettarli, diventa capace di cogliere e accettare anche i limiti degli altri senza sottovalutarli né sopravvalutarli. Ciò permette di avere consapevolezza del proprio ruolo e di mantenerlo in modo adeguato e realistico, sia nel porsi in ascolto del bisogno dell’altro, sia nell’intraprendere una relazione di aiuto. Rendersi conto del limite dell’altro e del bisogno in modo realistico ed equilibrato è il solo modo autentico di essere solidale verso il portatore di handicap, ma anche l’unico veramente efficace per far crescere l’altro verso una maggiore consapevolezza di Sé e dei propri limiti. La formazione degli educatori e degli insegnanti quindi deve porsi tali obiettivi in modo specifico, ma essi valgono non solo sul piano professionale, ma per qualsiasi persona adulta che voglia essere responsabile del proprio ruolo sociale e del dovere di solidarietà con tutti.

Il Centro di Ricerca delle Tecnologie dell’Istruzione dell’Università cattolica ha studiato e sperimentato una metodologia di formazione per gli educatori e gli insegnanti per prepararli professionalmente, sia verso i soggetti della prima infanzia, sia verso i portatori di handicap o con difficoltà di comportamento. È stata istituita una “Scuola triennale di formazione per insegnanti ed educatori professionali ad orientamento psicomotorio ed espressivo” organizzata dall’Università cattolica in collaborazione con la Fondazione Pro-Juventute don Carlo Gnocchi di Milano, proprio per la preparazione di tali operatori. In questa scuola sperimentale è particolarmente curata la preparazione personale e professionale attraverso un continuo lavoro su di sé, che permetta a ciascun allievo di prendere coscienza delle proprie esigenze emotivo-affettive, delle proprie modalità di stabilire una relazione di aiuto sia con bambini, sia con adolescenti, sia con soggetti portatori di handicap o con difficoltà di comportamento. Tale formazione insieme con la preparazione teorico culturale e il tirocinio pratico guidato porta ad ottenere risultati notevolmente validi sul piano della preparazione sia personale che professionale di tali operatori. Credo comunque che il risultato più valido di questa scuola per educatori sia proprio dato dal fatto di essere riusciti a creare un ambiente educativo, un ambiente di contenimento, un setting che permetta di offrire a tutti gli allievi la possibilità di mettersi in ascolto di se stessi, di scoprire i propri bisogni, le proprie difficoltà, le proprie debolezze e di provvedervi con un lavoro di controllo, di attenzione a sé e all’altro, di crescita personale, in modo da favorire la costruzione di una personalità matura, che possa essere figura significativa nella relazione educativa.

 

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[Questo intervento del Prof. Mario Groppo è stato pubblicato nell'opera: AA.VV. La solidarietà. Per il superamento di emarginazione, solitudine e razzismo. Atti del 59° corso di aggiornamento culturale dell’Università Cattolica, Cagliari, 10-15 settembre 1989. Vita e Pensiero, Milano 1990.

Contributi di: Adriano Bausola, Michele Giordano, Bruno Maggioni, Eugenia Scabini, Angelo Serra, Francesco Migliori, Paola Soave, Valeria Longo Carminati, Mario Groppo, Francesco Bellino, Cesare Kaneklin, Enrico Tempesta, Angelo Ludovico Pesola, Luigi Ortona, Adriano Bompiani, Mario Fioret, Pierugo Carbonin, Leonardo Antico, Rosa Russo Jervolino].

 

 

Federazione

Universitaria

Cattolica

Italiana

Gruppo F.U.C.I. in Università Cattolica -Milano-

 

Convegno dal titolo:

 

La Solidarietà:

virtù generatrice di una nuova cultura e di nuovi comportamenti

per lo sviluppo integrale dell'uomo.

 

Incontro con:

Prof. Mario Groppo

Prof. Don A. Lattuada

Mons. G. Merisi

 

 

Il Prof. Mario Groppo è stato docente di Psicologia dell'Educazione e di Psicologia dell'Età Evolutiva presso l'Università Cattolica di Milano.

Negli anni Novanta, Raffaele Coluccia -studente di Giurisprudenza- ha avuto la fortuna di giovare del suo insegnamento,  nell'ambito delle attività culturali organizzate dalla FUCI.

Sarà utile ricordare che, negli anni Trenta, anche il Sen. Paolo Emilio Taviani era stato attivo fautore, a livello nazionale, della medesima Federazione Universitaria Cattolica Italiana.